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Il mio Primo giorno di scuola

La chiamata è arrivata, si parte.

L’incarico è su Alternativa alla religione cattolica e sul supporto didattico agli alunni stranieri, per ora. Ne manca ancora un pezzettino che potrà vertere sul sostegno ai dsa.

Ho ancora un orario per ora di massima.

Fino a prima la presa di servizio , avrei dovuto tamponare una emergenza, andando in una seconda classe tutte le quattro ore della mattinata,  ma invece mi è stato modificato di nuovo all’ultimo il programma.

Mancano le insegnanti di sostegno e dunque ho fatto due ore su una alunna in terza A e due ore su un alunno in prima E.

So che potrei rifiutarmi, so che dovrei dare la mia disponibilità, ma cosa faccio? Mi metto a fare questioni il primo giorno? Sono troppo felice del mio nuovo incarico che me ne andrei anche nella fossa dei leoni, se in compagnia.

La mia alunna si chiama Chiara. Per Chiara  rimango in classe per certe parti della lezione e per altre esco su richiesta dell’insegnante stessa; so che alcune insegnanti non vogliono separare il momento di apprendimento della classe, nemmeno per i suoi alunni con il sostegno; evidentemente questa maestra la pensa diversamente.

Si tratta di leggere un brano che è disposto in quattro paragrafi che non sono in ordine corretto, ossia si tratta di capire il senso della storia e di riconoscere la giusta successione temporale.

L’alunna mi è stata presentata come un caso grave, e capisco subito il perchè.

Dopo una sola ora di lezione per lo più retta con apparente leggerezza, in quanto sempre con l’insegnante individuale accanto,  Chiara comincia a non reggere l’attenzione,  legge ma senza concentrazione, risponde alle sollecitazioni della maestra, ma con un atteggiamento quasi assente. Continua a sostenere che le fa male una gamba, ma è una evidente scusa senza fondo di verità;  accenna anche qualche lacrima, un piccolo piagnisteo, per riuscire a catturare (nel senso da lei voluto) l’attenzione dell’insegnante, che cerca di assecondarla giusto il necessario per non perdere l’aggancio emotivo e attenzionale.

La  vedo in chiara difficoltà; per non perderla del tutto le faccio delle domande, volte a instaurare un approccio emotivo, e quindi la invito a  parlare della sua famiglia.

Le risposte di Chiara sembrano veritiere, in parte; a volte si intercalano con parole di pura fantasia, che solo superficialmente possono apparire senza senso, ma un significato di sicuro ce l’hanno.

L’episodio del piagnisteo è accaduto fuori della classe; forse c’è un collegamento tra quello che Chiara farebbe in classe e quello che fa fuori?

In classe Chiara mi aveva abbracciato e detto “Ti voglio bene” (appena vista venti minuti prima); fuori della classe questo approccio emotivo non si è ripetuto. Sto cercando di riflettere. Di farmi un piccolo quadro iniziale.

Non tratto Chiara come un alunna con difficoltà; le faccio le stesse domande che farei ad un alunno senza bisogni particolari, con la sola differenza che sono io a guidarla in tutto, anche nell’individuare le sue risposte corrette  che vengono spontanee  ma senza consapevolezza.

Mi spiego meglio: avevo chiesto a Chiara come si poteva far finire  il racconto appena letto, che raccontava di un albero magico che fabbricava pantofole anzichè mele.

Chiara mi risponde che le darebbe alla mamma ed io le faccio solo notare che le pantofole sono centinaia, non avrebbe senso regalargliele tutte. Allora lei precisa: solo due.

Insisto e faccio di tutto perchè anche Chiara possa consegnare il suo compito finito alla fine delle due ore; lo dico anche a Chiara che così farebbe contenta la maestra in classe.

Ma le ultime parole vengono scritte proprio come se venissero strappate.

Rifletto: è così importante fare tutto o è più importante fare anche meno ma  meglio? Che cosa si deve intendere per meglio? Certo, è sempre meglio la qualità della quantità, e non devo farmi condizionare dal fatto che Chiara debba fare quanto fanno gli altri.

Se non può fare quello che fanno gli altri, perchè dovrebbe fare quanto fanno i suoi compagni?

Devo liberarmi di certe ossessioni e pregiudizi; ricordati, cara maestra, della pedagogia dell’ascolto, della pedagogia a misura di bambino, e che i bambini sono tutti diversi pur essendo tutti uguali…

Quando entro in prima E c’è  Lorenzo ad attendermi.  E’ un bambino autistico.

A  luglio ho cercato di iscrivermi a un master sull’handicap, tra cui c’era anche uno specifico sull’autismo. Non l’avevo scelto, avevo scelto quell’altro, e poi non sono risultata comunque inseribile, perchè è stata data la precedenza agli insegnanti in servizio e non a quelli in attesa di nomina.

Problema rimediabile perchè mi sto iscrivendo ad uno per mio conto, che ovviamente pagherò quattro volte tanto. Pazienza.

Lorenzo è un bambino esile, dolce, silenzioso; non mi sembra aggressivo, ma non posso dire molto dopo solo due ore di lezione.

Sì, effettivamente vive nel suo mondo; io gli parlo, lo guido, gli suggerisco alcune cose;  lui sembra ascoltare e capire, ma quando finisce il lavoro  (colorare una bellissima immagine che raffigura la scuola) va subito e solo dalla sua maestra, quella che già conosce da dieci giorni, per mostrare il lavoro fatto.

Ho come la sensazione che io per lui è come se non ci fossi, o quasi.

Mi dà la possibilità di  osservare anche gli altri, visto la sua relativa  autonomia.

Su ogni banco c’è il nome del suo occupante. Penso che serva soprattutto alle maestre per  imparare bene  i nomi di ciascuno.

La classe è di venti alunni circa, ma la media è intorno ai ventitre.   Con i maestri  assenti quando le classi vengono divise il numero  arriva a venticinque, ventisei per classe.

Alcuni alunni in fondo l’aula fanno i fatti loro, anzichè ascoltare la maestra che legge una favola; li invito a stare attenti, ma si azzittiscono sorridendo solo per pochi minuti poi riprendono.  L’insegnante lascia correre, sembra non accorgersene nemmeno, l’importante è che la lezione rimanga  gestibile per gli altri diciotto che  partecipano.

Certo, le maestre di una volta ne gestivano anche quaranta, di alunni,  ma erano altri tempi, un’altra società, altre generazioni di uomini e di classi.

Entrambe le colleghe incontrate oggi mi hanno confidato il pensiero di essere già stanche, dopo solo due settimane  dall’inizio dell’anno scolastico.

E’ solo perchè non ci sono più le maestre  di una volta?

So bene che non è così;  non è colpa delle maestre se l’assenza di educazione a casa produce effetti disastrosi a scuola; se l’assenza di esempi collettivi e sociali, si ripercuote nel panorama scolastico; se l’assenza di risorse adeguate determina situazioni di   emergenza che non può essere più chiamata tale perchè non si può stare in emergenza tutto un anno (perché così sarà…).

E poi arriva il momento della foto di inizio scuola; tutti insieme davanti al Preside compiaciuto che ci guarda ed al fotografo che comunica la pubblicazione  sulla  gazzetta  del Comune.

A  fine orario  arriva anche la vicepreside che si scusa  per avermi  utilizzato su ore non di mia competenza.  Si parla delle ore da dare fuori classe  (programmazione,consigli, riunioni ecc) e di un corso di formazione  psicologica  che deve partite a giorni.

Bella la mia scuola, penso.

Ci sono alunni meravigliosi, allegri, motivati, e maestre attente, preparate, consapevoli.

I problemi sono fatti per essere affrontati e risolti. Li affronteremo. Li risolveremo.

E dunque non manca proprio nulla.

Primo giorno di scuola

L' arte di insegnare. Consigli pratici per gli insegnanti di oggi

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